Tornare a casa di Dörte Hansen

Tornare a casa di Dörte Hansen

Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti.

Leggendo la storia raccontata da Dörte Hansen in Tornare a casa, bel romanzo recentemente pubblicato da Fazi Editore, vengono subito in mente le parole de La luna e i falò di Cesare Pavese.
È infatti l’immaginario Brinkebüll, paese rurale della Germania del nord, il vero protagonista di queste pagine intense e malinconiche.

Tornare a casa

Di bellezza neanche l’ombra. Solo terra nuda, una terra che sembrava devastata e sfinita. Ti veniva voglia di consolarla con una bugia compassionevole, di posare una mano su quel suole dire: andrà tutto bene. Tutto si sistemerà. Farla sperare nelle belle giornate, quelle in cui il cielo non era di pietra e non soffiava il vento, a volte ce n’erano di giorni così. Allodole, rondini, ippocastani e pioppi bianchi in fiore, pini odorosi al sole. Giorni colorati: colza e denti di leone, erba estiva, erica, vacche pezzate, albe e tramonti. Con il cielo terso un lieve bagliore del Mare dei Wadden.

È sempre stata dura la vita a Brinkebüll, così come è sempre stata dura la vita dei contadini, da che il mondo ne abbia ricordo.
Una vita semplice, senza grandi pretese, che scorre al ritmo dei campi, delle feste e delle festività.

La gente di Brinkebüll passava sopra un sacco di cose. Uno poteva picchiare i propri figli, mettere incinta la moglie del vicino o lasciar deperire il bestiame nelle stalle. Ma venivano tutti quando erano invitati a una festa.

Ingwer a Brinkebüll è nato quasi cinquantanni fa e da lì è fuggito verso una vita di studi e carriera accademici e poco altro. Condivide casa con un’architetta di buona famiglia, ma sciatta per vocazione, e un mancato avvocato, viziato e velista.
Il loro menage a trois non funziona più, o forse non ha mai funzionato.
Tornare da dove è venuto, con la scusa di prendersi cura di chi lo ha cresciuto, è l’unica cosa che sente di poter fare in questo momento di stallo e insoddisfazione.

Sembrava essere fatto della stessa sostanza di quelle terre. Un uomo morenico, sospinto e scalfito, segnato nell’anima dall’azione di antichi ghiacciai, del vento e della pioggia.

Sönke ed Ella non sono i suoi genitori, anche se Ingwer li ha sempre chiamati mamma e papà.
Ormai hanno molto più di ottant’anni e il tempo non è stato affatto clemente con i loro corpi e con i loro cervelli. Sönke a malapena si regge in piedi, mentre Ella non ricorda quasi più nulla del loro passato.
A volte, però, cerca ancora Marret, la loro figlia un po’ toccatella, che a diciassette anni partorì Ingwer per poi dimenticarne l’esistenza e continuare a concentrarsi su ciò che davvero le importava, come raccogliere e conservare fossili e animali morti, disegnare sulle riviste, cantare a squarciagola canzoni pop e andare in giro vaneggiando sull’arrivo della fine del mondo.

Marret Feddersen sembrava vivere dietro una parete di vetro. Dovevi gridare e sbracciarti per raggiungerla, e a volte il vetro era pure appannato. Lei non vedeva e non sentiva niente quando stava accovacciata sul suo sgabello nella stalla, seduta dentro agli armadi o nella legnaia a leggere le riviste del circolo di lettura, Quick, Stern e Bunte, e a disegnare denti cariati, barbe, occhiali e chiome ricciolute sulle facce delle stelle del cinema e delle cantanti pop in copertina.

Cresciuto da Sönke ed Ella nella locanda del paese, Ingwer ha visto, sentito e vissuto davvero di tutto.
Il trascorrere delle stagioni, matrimoni e feste di ogni tipo, le storie del suo migliore amico massacrato di botte dal padre, le stranezze di una compagna di scuola troppo intelligente per sopportare un luogo che non aveva nulla da offrire, la severità di un maestro che era ben più di un semplice educatore, la morte del bambino più bello di tutti.

Lui c’era sempre stato, Ingwer Feddersen, a macerare nella musica da ballo e nel fumo di sigaretta, la sala sott’occhio, il bancone a separarlo da Brinkebüll. Sempre presente e mai del tutto partecipe, di fatto era ancora così. Ovunque andasse e qualunque cosa facesse, era come se ci fosse un bancone tra lui e il resto del mondo.

Ingwer ha visto e sopportato di tutto e da Brinkebüll se n’è andato, convinto di trovare altrove quello che lì gli era mancato, seppure quel vuoto gli fosse sempre sembrato indefinibile e rarefatto, impossibile da chiamare per nome.
Era la verità che andava cercando?
La verità su suo padre? Quella su sua madre? La verità sull’amore tra i suoi nonni?
La verità su come un paese come quello potesse restare in piedi mentre tutto stava crollando?

Queste cose non te le diceva nessuno. A Brinkebüll non avevi alcun diritto alla verità o alle risposte, non ti erano dovute spiegazioni, specialmente se eri un bambino. Se non capivi qualcosa, se le cose non ti quadravano o avevi uno strano sentore, dovevi arrivarci da solo. Giocavi al telefono senza fili con te stesso, assemblando spezzoni di frasi captate qua e là, e all’inizio non avevano senso.

Non stupisce che Tornare a casa abbia venduto in Germania più di 400.000 copie, scatenando non solo l’interesse dei lettori ma anche il plauso della critica.
Dörte Hansen, con una penna lieve ma ben affilata, racconta di un mondo perduto e della nostalgia per quel che è stato, tratteggiando magnificamente tutti i personaggi – protagonisti o semplici comparse – che di quel mondo hanno fatto parte e al quale, nonostante tutto, vogliono disperatamente tornare.
La mutazione di Brinkebüll, il dissolversi della civiltà rurale e delle sue fatiche, a favore di una contemporaneità apparentemente più semplice, ma che mastica e inghiotte il tempo e i ricordi, è ciò che più resta di queste trecento pagine malinconiche, piene di grazia e, allo stesso tempo, di una verità ruvida e fastidiosa: quella sugli anni che scorrono e sul fatto che tutti, prima o poi, dobbiamo prenderne atto.

Tornare a casa di Dörte Hansen

un libro per chi: sa che tornerà sempre verso quella che sente come “casa”

autore: Dörte Hansen
titolo: Tornare a casa
traduzione: Teresa Ciuffoletti
editore: Fazi
pagg. 310
€ 18.50

Chi ha scritto questo post?

Emiliano-romagnola, ragazzina negli anni ’80, si è trasferita a Milano nel 2008 e per molto tempo è stata un "angelo custode di eventi".
Da anni si occupa anche di libri: modera incontri letterari, ha ideato e realizzato la rassegna Segreta è la notte e conduce diversi gruppi di lettura.
Pratica mindfulness dal 2012, sogna sempre le montagne e ascolta musica jazz.
È meno cattiva di quello che sembra e vorrebbe morire ascoltando “La Bohéme” di Puccini.

(2) Commenti

  1. livia dice:

    L’ho finito ieri sera e per curiosità sono andata a cercare un po’ di opinioni. Perfetta e condivisibile la tua.

    1. Grazie Livia, è un romanzo che ho davvero molto amato, soprattutto per le sensazioni che mi ha fatto provare!

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