Canta, spirito, canta di Jesmyn Ward

Canta, spirito, canta di Jesmyn Ward

Un anno fa in molti rimanemmo folgorati dalla scrittura di Jesmyn Ward, all’uscita per NN Editore del primo capitolo della Trilogia di Bois Sauvage, Salvare le ossa.
Dopo un’attesa che ha coinvolto migliaia di lettori, in libreria è arrivato Canta, spirito, canta, che, se possibile, supera in bellezza il suo predecessore.

Canta, spirito, canta

Crescere qui in mezzo alla campagna mi ha insegnato un po’ di cose. Mi ha insegnato che dopo la prima gloriosa vampata di vita, il tempo erode tutto: arrugginisce le macchine, porta a maturità gli animali finché non perdono il pelo e le penne, avvizzisce le piante. Una volta all’anno, all’incirca, lo vedo in Pop, da com’è dimagrito sempre di più con l’età, da come i tendini si fanno a mano mano più evidenti, più grossi e rigidi, anno dopo anno. Dai suoi zigomi indiani, severi. Da quando Mama si è ammalata, però, ho imparato che anche il dolore può fare quell’effetto. Può divorare una persona finché non rimane altro che pelle, ossa e un leggero strato di sangue. Può roderti le viscere, gonfiarti nei posti sbagliati: i piedi di Mama sembrano palloni pieni d’acqua, pronti a scoppiare sotto le coperte.

Ambientato ancora una volta nella provincia più povera ed emarginata del Mississippi, Canta, spirito, canta ci racconta la storia di Joseph, detto Jojo, e della sua famiglia: Leonie, la madre tossicodipendente, Pop, il nonno ferito nell’anima ma sempre presente, Mam, la saggia nonna malata di cancro, Michaela detta Kayla, la piccola di casa, e Michael, il padre da anni in prigione.

È un ragazzo sensibile Jojo, tanto che gli sembra di sentire parlare gli animali e di percepire la presenza degli spiriti. Acuto osservatore del mondo che lo circonda ma che ancora non del tutto comprende, riserva amore devoto e smisurata cura verso la fragile sorellina, che da lui dipende in tutto e per tutto.
Costretto a diventare adulto prima del tempo, nell’assenza del padre carcerato e della madre drogata, Jojo porta sulle spalle il peso della malinconia di chi ormai non aspetta nulla di buono dalla vita.

Per il mio compleanno Mam mi faceva sempre la torta Red Velvet. Aveva cominciato quando avevo compiuto un anno. A quattro anni gliela chiedevo: Torta rossa, dicevo, e indicavo la scatola sul ripiano del supermercato. La torta che mi ha portato Leonie è piccola, grande più o meno come i miei due pugni messi insieme. È cosparsa di granella rosa e azzurra, e su un lato ci sono due scarpine azzurre. Leonie tira su col naso, tossisce contro il suo braccio ossuto, poi prende un barattolo da un chilo e mezzo del gelato più economico di tutti, quello che quando lo mangi sembra gomma fredda.
«Avevano finito le torte di compleanno. Le scarpine sono azzurre, perciò va bene».
Solo quando lo dice mi rendo conto che ha portato al suo figlio tredicenne una torta da battesimo. Rido ma non provo nessuna tenerezza, nessuna gioia. Una risata che non è nemmeno una risata, così dura che Kayla si guarda intorno e poi guarda me come se l’avessi tradita. Si mette a piangere.

Leonie sa di non riuscire a provare il necessario amore che serve a nutrire l’anima dei figli.
La droga le ottenebra i sentimenti terreni, ma allo stesso tempo acuisce i suoi sensi, regalandole la visione di Given, il fratello diciottenne morto violentemente per mano di bianchi attaccabrighe razzisti.

«Mi dispiace che stai così male dice», e Michaela si mette a piangere. Lui le accarezza la schiena, e lei la accarezza a lui, e io me ne sto lì impalata, a guardare i miei figli consolarsi vicenda. Mi prudono le mani, vorrei fare qualcosa. Potrei allungarle, toccarli, e invece non lo faccio. Jojo ha un’espressione un po’ smarrita, un po’ stoica, un po’ come se dovesse mettersi a piangere anche lui.

Alla notizia che Michael sta per uscire di prigione, Leonie – con la spinta di Misty, un’amica altrettanto drogata – trascina i figli in un’improvvisa partenza per raggiungere il marito, trasformando il viaggio in un’odissea che ha ben poco di epico e molto di imprevisto.
Un inseguire la vita e la redenzione, tenendo sempre al proprio fianco la morte, perché è quest’ultima, in fondo, a rivelarci il senso di tutto.

Con una prosa tanto limpida quanto potente, Jesmyn Ward ha il dono di raccontare storie scomode, brutali, a tratti raccapriccianti, trasformandole in pagine gravide di significati al limite dell’ultraterreno.
La violenza, la sporcizia, l’abbandono, il razzismo, la schiavitù, la solitudine, il dolore, ogni cosa è necessaria per arrivare alla conclusione del ciclo, per dare pace agli spiriti del passato, alle persone amate e mai tornate, alle mancanze terrene e mistiche.

Se Salvare le ossa poteva definirsi un romanzo femmina, Canta, spirito, canta è senza sesso, come un’entità divina e celeste, impossibile da identificare e che si può solo venerare.

Canta, spirito, canta di Jesmyn Ward

un libro per chi: crede nell’impossibile

autore: Jesmyn Ward
titolo: Canta, spirito, canta
traduzione: Monica Pareschi
editore: NN Editore
pagg. 320
€ 19

Chi ha scritto questo post?

Emiliano-romagnola, ragazzina negli anni ’80, si è trasferita a Milano nel 2008 e per molto tempo è stata un "angelo custode di eventi".
Da anni si occupa anche di libri: modera incontri letterari, ha ideato e realizzato la rassegna Segreta è la notte e conduce diversi gruppi di lettura.
Pratica mindfulness dal 2012, sogna sempre le montagne e ascolta musica jazz.
È meno cattiva di quello che sembra e vorrebbe morire ascoltando “La Bohéme” di Puccini.

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